giovedì 24 dicembre 2015

La vitamina D


Quando parliamo di vitamina D, ci riferiamo normalmente alla D2 e D3.
La vitamina D, conosciuta per la sua principale attività antirachitica è un nutriente liposolubile indispensabile per un corretto sviluppo dei tessuti ossei e per una funzione neuromuscolare ottimale.
La sua funzione fisiologica principale consiste nel promuovere l’assorbimento di calcio e fosforo attraverso la mucosa intestinale, rendendo possibile la calcificazione dello scheletro.
Oggi riconsiderata per nuove molteplici altre funzioni: Svolge un ruolo importante nell’assicurare un corretto funzionamento di muscoli, nervi, coagulazione sanguigna e utilizzo dell’energia, essendo un fattore essenziale per l’omeostasi minerale. Inoltre agisce come antiossidante, immunomodulatore e antinfiammatorio.
Per questo è utilizzata in diverse patologie e disturbi quali sclerosi multipla, cardiopatie, psoriasi, artrite reumatoide.

Studi recenti sembrano confermare che la maggior parte della popolazione non assume quantità adeguate di vitamina D attraverso la dieta e l’esposizione al sole. Sono infatti molto poche le fonti alimentari di vitamina D e la maggior quantità viene assimilata grazie ad alimenti arricchiti.
Una corretta integrazione sopperisce a tali carenze, contribuendo alla salute dell’organismo.

La ricerca suggerisce che la vitamina D possiede un ruolo attivo nella funzione immunitaria, la sintesi delle proteine, la funzione muscolare, la risposta infiammatoria, la crescita cellulare e svariate regolazioni a livello del muscolo scheletrico. Un sintomo comune di carenza di vitamina D è la debolezza muscolare.
Visti i molti ruoli essenziali della vitamina D nel corpo, è stato suggerito che le prestazione fisica può essere influenzata seriamente da un adeguata presenza di vitamina D, specialmente in quelli che sono clinicamente carenti.
La via autocrina sembra essere di estrema importanza e ha recentemente ricevuto molta attenzione per quanto riguarda la vitamina D e l’ influenza sulla funzione del muscolo scheletrico.

Vitamina D e salute delle ossa

La vitamina D agisce in due modi distinti all’interno del corpo, attraverso meccanismi  endocrini e autocrini. Il primo è il più noto, tale meccanismo agisce aumenta l’attività di assorbimento del calcio e osteoclasti intestinale. La vitamina D è essenziale per la crescita ossea, la densità e il rimodellamento, e senza adeguate quantità, si verifica facilmente perdita ossea e conseguenti lesioni.
Quando la vitamina D è bassa, l’ormone paratiroideo (PTH) aumenta l’attività di riassorbimento osseo al fine di soddisfare la domanda del corpo del fabbisogno di calcio. Quindi bassi livelli di vitamina D aumentano il turnover osseo, che amplifica il rischio di una lesione ossea, spesso definite fratture da stress.

Livelli raccomandati di assunzione per la vitamina D

L’esposizione della pelle al sole è la più abbondante fonte di vitamina D, inoltre ci sono alcune fonti alimentari interessanti.  Alcuni alimenti contengono naturalmente  livelli significativi di vitamina D, tra essi annoveriamo: salmone, pesce grasso, tuorli d’uovo,  inoltre esistono prodotti fortificati, come, latte, cereali e succo d’arancia. Anche se queste fonti alimentari possono apparire utili come fonte di vitamina D, purtroppo il processo di assorbimento dietetico è efficace solo per circa il 50%; pertanto, gran parte del valore nutritivo si perde nella digestione.
La mancanza di vitamina D nella dieta è un altro fattore che aumenta il rischio di insufficienza di vitamina D. La maggior parte degli esperti concordano sul fatto che una maggiore assunzione di vitamina D, attraverso fonti alimentari, raggi ultravioletti B (UVB) dell’esposizione al sole, e l’integrazione sono necessari per ottenere livelli ottimali di vitamina D nel siero.

The Endocrine Society
Al giorno UI
Limite max giorno UI
Bambini (0–18 years)
400–1000
2000–4000
Adulti (19–70 years)
1500–2000
10,000
Anziani (>70 years)
1500–2000
10,000

La carenza di vitamina D è spesso definita come <20 ng/mL (50 nmol/L),
l’insufficienza  come 20-32 ng/mL (50-80 nmol/L),
livelli ottimali sono> 40 ng/ml (100 nmol/L).
Il termine insufficienza “sembra essere il termine attualmente preferito per i livelli di carenza di concentrazione teorica nel siero non sufficiente a proteggere contro svariate malattie croniche”.

Quando i livelli sierici di vitamina D sono maggiori di 32 ng/ml, l’ormone paratiroideo (PTH) mantiene livelli stabili e si ridurre il rischio di ipoparatiroidismo secondario, comunemente associato con bassi livelli di vitamina D. Inoltre, l’assorbimento di calcio intestinale migliora, riducendo il rischio di malattia ossee secondarie.
A livelli maggiori di 40 ng/ml, la vitamina D comincia ad essere immagazzinata nel muscolo e grasso.

Si stima che il corpo richiede 3000-5000 UI di vitamina D al giorno per soddisfare le esigenze di “essenzialmente in ogni tessuto e cellula del corpo”.

I principali esperti sostengono che anche con una dose giornaliera di 10.000 UI ci vorrebbero mesi, o anche anni per manifestare sintomi di tossicità.
Una recente pubblicazione non ha trovato casi di tossicità con dosi giornaliere di 30.000 UI al giorno per un periodo di tempo molto esteso.
Indipendentemente dal valore di assunzione alimentare, la quantità di vitamina D prodotta da 15 minuti di esposizione al sole senza protezione è di 10.000 a 20.000 UI, in un individuo di pelle chiara, ecco perché per la maggior parte degli esperti ritengono  che la tossicità è un evento raro ed improbabile.

Durante i mesi che i raggi UVB sono disponibili dal sole, cinque a 15 minuti di esposizione al sole senza protezione, tra le ore 10:00 e 03:00 sembra fornire adeguate quantità di vitamina D.

Non sono mai stati segnalati casi di tossicità da vitamina D da esposizione al sole; tuttavia, i sintomi di intossicazione, come ipercalcemia, sono stati osservati durante livelli 25 (OH) D superiori a 150 ng/mL.


Vitamina D e morbo di Crohn

Numerose evidenze scientifiche, infatti, hanno individuato un’associazione tra carenza di vitamina D e sviluppo del morbo di Crohn.
In un piccolo studio di 24 settimane di assunzione di 5.000 u.i. di vitamina D, ha mostrato di aumentare effettivamente i livelli di vitamina D, riducendo il punteggio di CDAI, suggerendo che il ripristino dei livelli di vitamina D possa essere utile per il controllo di questa patologia.

Vitamina D e depressione

Sembra infatti che la vitamina D sia importante per la salute cerebrale e possa essere coinvolta nella patogenesi o nella prevenzione della depressione.
Precedenti studi avevano mostrato che i soggetti affetti da depressione sono a rischio di carenza di vitamina D, sia per la tendenza a non uscire spesso di casa (l’organismo produce la vitamina D autonomamente quando esposto alla luce solare), sia perché generalmente non praticano attività fisica.
Altri dati indicano che questa vitamina aumenta i livelli di serotonina, il neurotrasmettitore su cui gli antidepressivi agiscono.
Una meta-analisi di tutti gli studi ha dimostrato un miglioramento statisticamente significativo nella depressione grazie alla supplementazione di vitamina D.



martedì 22 dicembre 2015

Ruolo della serotonina nell’interazione tra microbiota e sistema nervoso centrale

Nell’intestino, oltre alla mera funzione digestiva, avviene la produzione di serotonina, neurotrasmettitore in grado di darci la felicità. Ed in che modo un’alterazione del microbiota può intervenire sull’umore?  

Dal punto di vista biochimico gli episodi depressivi vengono interpretati come un’alterazione della concentrazione della serotonina, chiamata anche ormone del buonumore.
La serotonina instaura una sensazione di serenità e benessere globale ed un suo difetto provoca aggressività ed ansia.
Controlla l’appetito facendo percepire il senso di sazietà attraverso una riduzione del desiderio di carboidrati a favore dell’introduzione di proteine.
Il precursore della serotonina è l’amminoacido triptofano, da cui attraverso l’enzima triptofano idrossilasi viene sintetizzata; ed a sua volta la serotonina è un precursore della melatonina, una molecola che ha la funzione di regolare i ritmi circadiani; ovvero i cicli veglia sonno e gli ormoni ad essi correlati.

Contenuta in concentrazione maggiore in tre distretti corporei

A livello della parete intestinale abbiamo le cellule cromaffini che contengono il 95% della serotonina totale dell’organismo.  Se presente in difetto determina stitichezza, un eccesso invece determina diarrea.

Nel sangue e più precisamente nelle piastrine, dove viene rilasciata in seguito a danno tissutale per favorire l’aggregazione;  inoltre esplica un’azione vasocostrittice diminuendo il rischio di emorragia a seguito di una lesione.

Nel sistema nervoso centrale dov’è un neurotrasmettitore.
Viene rilasciata a livello del sistema nervoso centrale dal neurone, e  più precisamente dal terminale assonico per interagire con i recettori postsinaptici, l’eccesso di serotonina viene riassorbito dal terminale presinaptico, oppure degradata dalle monoamminossidasi (MAO).

Analisi

Un gruppo di scienziati ipotizzano una connessione fra osso, cervello ed intestino, dove la serotonina rappresenta l’anello di congiunzione. Esistono due tipi di enzimi triptofano idrossilasi (Tph1 e Tph2), il primo promuove la sintesi di serotonina a livello delle cellule cromaffini, il secondo nel cervello. La serotonina rilasciata nell’intestino stimola, in parte, la peristalsi, ed una parte entra nel torrente circolatorio dove è trasportata dalle piastrine attraverso il trasportatore 5-idrossitriptamina (5HTT); da cui viene rilasciata in situazioni dove serva attivare il meccanismo della coagulazione.

In presenza di disbiosi si sviluppa un’alterazione della serotonina prodotta a livello intestinale e perciò in maniera del tutto teorica, per il momento, si prospetta una probabile correlazione tra disbiosi, depressione e disturbo bipolare.
Anche se, anche a livello statistico, si è già trovata un’elevata incidenza di fenomeni depressivi in individui con patologie infiammatorie intestinali.

Questo significa che abbiamo la presenza di due rafforzativi: alterazioni di membrana alterano il trasporto della serotonina verso il SNC, favorendo un’infiammazione causata dalla presenza di serotonina libera, e la presenza di infiammazione intestinale riduce la produzione di serotonina a livello enterico. Inoltre la disbiosi può incrementare sia diminuire la peristalsi intestinale come effetto diretto sull’intestino, due condizioni gestite dal sistema simpatico e parasimatico regolando il metabolismo cellulare dell’organismo. In caso di costipazione se il tono simpatico aumenta si rallenta la digestione e l’assorbimento aumenta, perché a livello capillare la noradrenlina ha un effetto vasodilatatore e non costrittore; e causando iperlipogenesi e iperglicemia plasmatica induce glicolisi e lipolisi metabolica per produrre energia. L’opposto in caso di diarrea quando il tono vagale aumenta.





venerdì 11 dicembre 2015

La colite microscopica

Il termine colite microscopica comprende due entità cliniche con sintomi in comune ma caratteristiche istologiche differenti e ben definite: la colite linfocitica e la colite collagenosica.
E' una malattia identificata recentemente, nel 1976 da C. G. Lindstrom che fu il primo a descriverla. Si presenta tipicamente con diarrea cronica, spesso associata a dolore addominale e perdita di peso.
La mucosa del colon osservata in corso di colonscopia appare tuttavia normale mentre l'esame istologico eseguito su biopsie di mucosa colica permette di confermare la diagnosi e distinguere le due entità che in alcuni casi possono coesistere. E' fondamentale eseguire biopsie in tutti i tratti intestinali esaminati secondo un preciso protocollo.
Non è una malattia rara: riguarda il 4-13% dei pazienti indagati per diarrea cronica.
La prevalenza nella popolazione generale è invece di circa 100 casi su 100.000 individui con una prevalenza di colite linfocitica rispetto alla collagenosica.
Sono numeri simili a quelli relativi alle malattie infiammatorie croniche intestinali ovvero colite ulcerosa e malattia di Crohn.
In Europa e negli USA le due forme istologiche sono entrambe  rappresentate.
Esiste una maggiore incidenza in alcune aree geografiche, in particolare il Nord Europa ed alcune aree degli Stati Uniti mentre i paesi del Sud Europa sono considerati a bassa incidenza.
La malattia è più comunemente identificata tra i 50 ed il 70 anni soprattutto nelle donna in rapporto di 3 a 1 rispetto all' uomo.

Sono considerati fattori di rischio l'età avanzata, il sesso femminile, la presenza di malattie autoimmuni quali ad esempio la tiroidite o la celiachia e una precedente diagnosi di neoplasia o un trapianto.
L'associazione con la celiachia appare particolarmente significativa.
Fattori ambientali o genetici sono stati considerati e in effetti nel 12% dei casi vi è familiarità per malattia infiammatoria intestinale o celiachia.
Una causa infettiva è stata ipotizzata, in particolare la colite da Yersinia, da Clostridium difficile o da Campylobacter potrebbe essere un fattore scatenante soprattutto della colite collagenosica.
L'assunzione di alcuni farmaci, in particolare gli antinfiammatori non stroidei, gli inibitori di pompa protonica, l' acarbosio, l'aspirina, la carbamazepina,la ranitidina, la sertalina, la ticlopidina e i beta bloccanti sono stati considerati come farmaci "a rischio".
Il fumo infine sembrerebbe in qualche modo associato alla malattia.

Sintomi

Il sintomo più comune e presente nel 98% dei pazienti è la diarrea, mentre il dolore addominale si osserva in un quarto di casi ed il calo di peso nel 10%.
Meno comuni l'incontinenza fecale ed il sanguinamento rettale.
I sintomi quindi sono in buona parte comuni a quelli della sintome dell' intestino irritabile rendendo la diagnosi non sempre agevole.
L'aspetto della mucosa intestinale all'esame endoscopico, che abitualmente è normale, può essere patologico nel 30% dei casi e si possono osservare edema, eritema ed aumento del reticolo venoso.
Il decorso clinico è variabile, la scomparsa della diarrea si ottiene nel 50% dei pazienti sottoposti a terapia steroidea. Si considera in remissione un paziente con meno di tre evacuazioni giornaliere o meno di un episodio di diarrea quotidiano.

Terapie

La terapia prevede l'utilizzo di antidiarroici ed antinfiammatori ed in particolare gli steroidi per via orale.
Il farmaco di scelta è infatti la budesonide: la risposta è elevata con un alto numero di recidive tuttavia alla sospensione della terapia.
E' consigliabile assumere la terapia a dosaggio pieno per alcune settimane fino a remissione completa e successivamente ridurre gradualmente le dosi. In caso di recidiva la terapia va ripresa fino ad essere assunta in alcuni casi a tempo indeterminato.
Le terapie efficaci comprendono la budesonide per via orale,la dieta priva di glutine,la mesalazina associata eventualmente a colestiramina, i farmaci immunosoppressori in casi selezionati, mentre il ruolo dei probiotici, del prednisolone dell'estratto di Boswellia serrata e del salicilato di bismuto è ancora da definire.
Nelle forme lievi la loperamide può essere utilizzata ed è meno gravata da effetti collaterali, rispetto alla budesonide.
Si tratta quindi di una malattia verosimilmente autoimmune in passato considerata rara ma oggi sempre più diagnosticata soprattutto nei pazienti con diarrea cronica non giustificata da altre patologie.
La prognosi è buona ed il rapporto con le malattie infiammatorie e con il cancro colorettale non certo.
Appare quindi evidente come, nell'iter diagnostico di una diarrea cronica, sia fondamentaleeseguire una colonscopia con biopsie qualora non si sia raggiunta la diagnosi con altri mezzi, unico modo per identificare e trattare adeguatamente questa condizione.
Non sono pochi i pazienti nei quali la diagnosi viene posta dopo anni di sintomi riferiti a colon irritabile nel quali una corretta terapia permette di eliminare un sintomo che condiziona pesantemente la qualità della vita quale è la diarrea.





domenica 6 dicembre 2015

Ruolo del S-IGA nell'intestino

Il SIgA ( Secretory Immunoglobulin A), del quale sta emergendo sempre di più l’importanza per un buon funzionamento del sistema immunitario, viene ancora raramente misurato; si misura in genere solo l’IgA, la cui importanza è ben nota, ma può benissimo accadere che la misurazione dell’IgA dia valori normali mentre quella del SIgA risulta bassa. E’ importante misurare anche il SIgA perché se risulta carente (la sua concentrazione tende a diminuire con l’età) vi sono varie possibili misure per potenziarlo, con effetto positivo sia per allergie ed intolleranze alimentari che per infiammazioni e suscettibilità alle infezioni.
Il SIgA è l’immunoglobulina principale che si trova nel muco, nella saliva, lacrime, fluido vaginale e nelle secrezioni delle pareti intestinali e polmonari. E’ resistente alla degradazione da parte di enzimi vari ed è la nostra prima linea di difesa e protezione contro microbi, candida ed agenti patogeni e tossici vari. Le cellule intestinali producono circa 2-3 grammi di SIgA al giorno; la produzione raggiunge il vertice durante l’infanzia e comincia a declinare dopo i 60 anni.
Molti pensano che la parete mucosa si trovi solo nel naso e seni nasali, ma in realtà la mucosa con la superficie di gran lunga più estesa si trova nell’intestino, dove costituisce la nostra prima linea di difesa contro batteri, funghi, virus, tossine varie, e contro proteine alimentari che, superando questo rivestimento e penetrando nel sangue, provocherebbero reazioni di allergie ed intolleranze alimentari. In termini semplici: gli anticorpi SIgA si “appiccicano” a microrganismi, proteine alimentari e carcinogeni , li intrappolano nel muco ed impediscono loro di andare altrove; questi invasori vengono invece “scortati” fuori dall’organismo con le feci.
Molte persone hanno dei livelli di SIgA carenti, e ciò le rende più vulnerabili verso allergie, intolleranze alimentari, eczemi ed infezioni. Constato spesso che le persone che non riescono a sbarazzarsi della candida hanno livelli di SIgA bassi, come pure le persone che soffrono di morbo di Crohn colite ulcerativa, morbo celiaco, autismo, asma, infezioni croniche e ricorrenti del tratto respiratorio e varie malattie autoimmuni.
Se i livelli bassi di SIgA si prolungano per molto tempo allora anche le ghiandole surrenali, che cercano di mettere riparo al danno provocato da questa carenza, si stancano ed indeboliscono e quindi spesso i test dimostrano sia bassi livelli di SIgA che scarsa funzionalità delle surrenali.
Il livello di SIgA può essere misurato con un test fatto con un campione di saliva o feci. 
Se i risultati sono più alti del normale ciò indica che vi è qualche infezione o infiammazione in corso nell’organismo, che sta cercando di combattere questo problema aumentando la produzione di SIgA.
Se invece i valori del SIgA sono più bassi del normale è bene cercare di farli aumentare, e per fortuna vi sono vari modi per farlo. I modi più efficaci variano da persona a persona, ma sono basati in genere su vari tipi di probiotici, sul beta glucano ed altre sostanze.
Se si riesce a far aumentare i livelli di SIgA, anche se non sempre si ottiene la soluzione completa del problema di salute (possono essere presenti vari altri fattori negativi da individuare ed affrontare), si ottiene tuttavia spesso un miglioramento.