lunedì 14 novembre 2016

Gli anticorpi

ANCA

Gli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (spesso chiamati ANCA, dall'inglese anti-neutrophil cytoplasmic antibodies), costituiscono un gruppo di autoanticorpi, prevalentemente del tipo IgG, diretti contro antigeni situati nel citoplasma dei granulociti neutrofili (il tipo più numeroso di globuli bianchi) e dei monociti. Si possono rilevare nel siero, mediante un semplice esame del sangue, in molte malattie autoimmuni, ma in particolare sono associati con alcune forme di vasculiti, le cosiddette vasculiti ANCA-associate.
Gli ANCA si possono suddividere in due classi, chiamate rispettivamente c-ANCA e p-ANCA, in base alla disposizione che assumono legandosi a neutrofili fissati con etanolo e al loro principale antigene bersaglio. Il titolo anticorpale degli ANCA si misura solitamente con metodica ELISA o con l'immunofluorescenza indiretta.
p-ANCA si legano alla cellula bersaglio intorno al nucleo (pattern perinucleare). L'antigene contro cui sono diretti è comunemente lamieloperossidasi (MPO).
c-ANCA si dispongono sulla cellula secondo un disegno di tipo granulare, diffuso nel citoplasma. L'antigene bersaglio più comune è la proteinasi 3 (PR3).
Gli ANCA diretti contro antigeni diversi da MPO e PR3 possono, talvolta, assumere un aspetto "a chiazze" all'immunofluorescenza, e sono più comuni nei pazienti con malattie diverse dalle vasculiti, tre quelle associate con la produzione di ANCA.
Un'ulteriore variante, detta x-ANCA, si può ritrovare nel corso di molte patologie, ma in particolare è frequente nelle malattie infiammatorie croniche intestinali.
Il processo che porta alla produzione degli ANCA non è completamente conosciuto, sebbene siano state proposte diverse ipotesi. È probabile che esista una predisposizione genetica, verosimilmente legata a geni coinvolti nella regolazione immunitaria, ma con il contributo di fattori ambientali, come vaccinazioni o esposizione ad alcune sostanze (silicati). Tuttavia nessuno dei meccanismi patogenetici proposti finora spiega il motivo delle diverse specificità di questi anticorpi.
Tre malattie sono particolarmente associate alla presenza degli ANCA nel circolo ematico: la granulomatosi di Wegener, la poliangioite microscopica e la sindrome di Churg-Strauss. Colpendo prevalentemente i piccoli vasi (compresi i capillari glomerulari), tali condizioni patologiche interessano frequentemente il rene.
Solitamente i c-ANCA si ritrovano nella granulomatosi di Wegener (sono presenti nel 90% dei casi attivi), mentre i p-ANCA sono associati con la poliangioite microscopica, con la glomerulonefrite rapidamente progressiva di tipo necrotizzante e con la sindrome di Churg-Strauss.
In molte altre malattie autoimmuni, come la rettocolite ulcerosa e la spondilite anchilosante, è possibile trovare ANCA in circolo.
In questi casi, comunque, non vi sono segni di vasculite, tanto che la presenza degli anticorpi è considerata incidentale, un epifenomeno più che una causa della malattia.
Nel caso della granulomatosi di Wegener è stata dimostrata una correlazione positiva fra il titolo degli ANCA e l'attività di malattia. Inoltre, alcuni studi in vitro hanno evidenziato come gli ANCA provocano l'attivazione dei neutrofili a cui si legano e reagiscono con le cellule endoteliali che esprimono l'antigene PR3. Gli ANCA potrebbero indurre il rilascio di enzimi litici da parte dei globuli bianchi, provocando un'infiammazione delle pareti del vaso (vasculite).


Vasculiti
ANCA e/o test per MPO e PR3 vengono di norma richiesti quando il paziente presenta segni e sintomi di vasculite autoimmune sistemica. Inizialmente i sintomi sono vaghi e non specifici, come febbre, affaticamento, perdita di peso, dolori muscolari e vari e sudorazione notturna. Al progredire della patologia i sintomi divengono più chiari e gravi, coinvolgendo vari organi e tessuti. Alcuni esempi sono:
-        Occhi- rossore (congiuntivite); problemi di vista
-        Orecchie- perdita dell’udito
-        Naso- raffreddamenti che non scompaiono
-        Pelle- rash cutaneo e/o granulomi
-        Polmoni- tosse e difficoltà respiratorie
-        Rene- proteinuria
Nei soggetti già diagnosticati il test deve essere effettuato a intervalli regolari come monitoraggio.

ANCA (anticorpi anticitoplasma dei neutrofili)
Normalmente sono utilizzati per le vasculiti (che sono molti rare). Abbiamo due pattern diversi di ANCA all’immunofluorescenza indiretta:
C-ANCA (citoplasmatici)
Il citoplasma è completamente verde, è visibile la classica forma dei nuclei dei neutrofili.
P-ANCA (perinucleari)
In questo caso invece la fluorescenza è tutta intorno al nucleo. Nel caso si abbia un immunofluorescenza positiva per ANCA, si passa ad una metodica di immunoenzimatica per capire con precisione contro cosa sono gli anticorpi trovati.
C-ANCA: di solito con questo pattern siamo di fronte alla presenza di anti “Proteinasi 3”, questo quadro è associato al morbo di Wegener, è una patologia estremamente grave con una granulomatosi diffusa che può portare il paziente alla morte (possono esserci quadri apparentemente banali con interessamento di distretti non vitali come orecchi o naso, ma possono complicarsi in maniera drammatica). L’anti-proteinasi 3 è anche associato anche a micropoliangioite.
P-ANCA: il pattern p-ANCA ha invece più possibilità:
anti-Mieloperossidasi, che è comunque la più importante, questo anticorpo è associato al morbo di Churg-Strauss o alla micropoliangioite
anti-lattoferrina, associato a LES, artrite reumatoide e Morbo di Crohn
anti-catepsina G, associato alla rettocolite ulcerosa
anti-antigene sconosciuto, associato a epatite cronica


ANA (auto-anticorpi anti-nucleo)

Si è calcolato che il 5 % circa della popolazione giovane (sopra i 65 anni si arriva al 10 %) avrà gli auto-AB antinucleo (ANA) misurati con l’ANA-test, senza essere necessariamente malati o comunque senza avere necessariamente patologie autoimmuni, ad esempio:
Individui sani
Epatopatie
Epatiti croniche attive (HCV positive hanno ANA nel 30 % dei casi o più)
Cirrosi biliare primitiva
Epatiti alcoliche
Patologie polmonari
Fibrosi
Asbestosi
Infezioni croniche (ad esempio TBC)
Neoplasie
Linfomi
Leucemie
Melanomi
Tumori solidi
Varie
Endocrinopatie
Sclerosi multipla
Post-trapianto d’organo
Prendiamo ad esempio il lupus eritematoso sistemico, è la malattia autoimmune per eccellenza ed in cui nel 95 % dei casi troviamo un ANA-test positivo (praticamente sempre), la sua incidenza è 1 caso su 2000 soggetti. Però su 2000 persone circa, 100 avranno un ANA-test positivo indipendentemente dal fatto che abbiamo una patologia autoimmune o meno, quindi di questo centinaio di persone solamente 1 avrà il LES.

ANTICORPI ANTI-DNA

Un altro tipo di auto-anticorpo importante nelle patologie autoimmuni sistemiche è quello degli anticorpi-anti DNA a doppia elica (nativo, quello a singola elica è denaturato), è un anticorpo che è già patogenetico, al contrario di ANA che è solo un epifenomeno, è per questo che gli anti-DNA vano controllati nel tempo durante il follow-up.
Si può individuare con varie metodiche, immunoenzimatiche, radioimmunologiche, ecc… . Il test che noi utilizziamo (che è anche il più economico) è l’immunofluorescenza indiretta su vetrini con “crithidia luciliae”, che è un parassita emoflagellato che presenta un ampia rete di dsDNA (DNA nativo) chiamata chinetoplasto. La metodica immunoenzimatica spesso faceva si che il DNA denaturasse e quindi l’anticorpo che si individuava era contro DNA denaturato, in questo caso invece il DNA del chinetoplasto è nativo e l’anticorpo trovato non può che essere anti-DNA nativo. Gli anti-DNA sono molto specifici, quando un paziente è anti-DNA positivo nel 90 % è un caso di LES.


ENA

Gli ENA antigeni nucleari specifici, quando li troviamo di solito il paziente ha una patologia autoimmune. Si individuano con tecniche immunoenzimatiche. Noi ne studiamo 7/8, solo quelli che riusciamo ad associare ad un problema clinico:
SM: sospetto LES, è poco sensibile (c’è solo nel 10/30 % di LES) ma se c’è, è per forza LES, inoltre il nome deriva da Smith, che è stato il primo paziente in cui è stato trovato questo anticorpo.
RNP: connettivite mista (molto rara) o subset di LES, sono anti-ribonucleoproteina.
SSA: subset di LES o sindrome di Sjogren (secchezza agli occhi ed in bocca e in alcuni pazienti linfomi e patologie importanti).
SSB: subset di LES o sindrome di Sjogren.
SCL-70: sclerosi sistemica progressiva. Abbiamo visto prima che un pattern di fluorescenza anticentromero è legato ad una sclerodermia limitata, in questo caso invece si avrà una sclerosi sistemica progressiva con un quadro polmonare.
JO-1: polidermatomiosite, malattia rara ma gravissima con un quadro muscolo-cutaneo e problemi respiratori. Anche qui il nome deriva dalla sigla della provetta in cui è stato identificato la prima volta.
Istoni: LES da farmaci, LES e in pazienti sani.
Nucleosomi: LES.


ANTICORPI ANTI-FOSFOLIPIDI

Individuati nel 1983 da Harris, la loro scoperta è stata importantissima per i pazienti con LES o connettiviti, infatti la loro presenza è responsabile di trombofilia assoluta con alto rischio di trombosi in distretti importantissimi come quello cerebrale, cardiaco od intestinale. Questa trombofilia molte volte compare già in età giovanile (pazienti che iniziano ad avere ictus già a 16-20 anni).
Un tempo si trattavano questi pazienti con grandi quantità di cortisone (senza successo) oggi sappiamo che dietro questa trombofilia assoluta ci sono anticorpi anti-fosfolipidi, soprattutto fosfolipidi a carica negativa (fosfatidilserina, fosfatidiletanolamina, ecc…). Tre gruppi di ricercatori indipendenti hanno poi scoperto che molte volte l’anticorpo anti-cardiolipina (un fosfolipide) non si lega direttamente ai fosfolipidi ma tramite una proteina plasmatica, la beta2 glicoproteina 1, quindi in realtà l’anticorpo è contro la proteina e non contro il fosfolipide, il risultato è sempre una trombofilia.

LAC (LUPUS ANTICOAGULANT)

Questo nome dato ad un gruppo di anticorpi è fuorviante, infatti in vitro abbiamo una situazione anticoagulante ma in vivo c’è comunque un effetto protrombotico. In vitro infatti avremo tempi di coagulazione molto allungati. Molte volte abbiamo dei soggetti giovani che fanno test di coagulazione in preparazione ad interventi o donazioni e trovano tempi di coagulazione allungati. A questo punto si indaga e si ricercano autoanticorpi. La presenza di LAC determina in vitro una ritardo nella conversione di protrombina in trombina, prolungando tutti i test fosfolipido dipendenti in particolare il PTTa.

QUANTI SONO GLI AUTO-AB?
Sono tantissimi, in un LES ne sono stati scoperti 116 (al momento) il lupus è il prototipo della presenza di auto-AB, contro molti target diversissimi tra loro (anti piastrine, anti rossi, anti leucociti, anti Ig,…). Quindi per clinica ne studiamo un numero limitato, ma per ricerca ne individuiamo molti di più. Trovarli è utile come abbiamo già detto per individuare le patologie autoimmuni e alcuni ci indicano con precisione a che livello è il danno, contro quale organo.

TIMING DEGLI AUTO-AB
Un tempo quando si individuava un auto-AB ci si fermava li, oggi si sa che invece c’è un preciso timing. Ad esempio nel LES prima compaiono quelli anti-fosfolipidi e anti-SSA/SSB detti anche rispettivamente anti-ro/la (3-4 anni prima della patologia), poi gli anti-DNA (2-4 anni prima), infine compaiono gli anti SM e gli anti RNP (1-2 anni prima) ed a questo punto si avrà il LES.

ANTI ASCA

Gli anticorpi anti Saccharomyces cerevisiae (ASCA) di classe IgA / IgG sono anticorpi diretti contro il Saccharomyces cerevisiae, agente lievitante comunemente utilizzato in molti alimenti e presente nel lievito di birra.
Sono considerati un marker per il morbo di Crohn (malattia infiammatoria intestinale che colpisce preferibilmente l'ileo terminale) e sono presenti nel 60-70% dei pazienti con malattia di Crohn (CD) e 10-15% dei pazienti con colite ulcerosa (UC).

Gli anticorpi IgA Saccharomyces cerevisiae sono presenti in circa il 35% dei pazienti anche con celiachia, oltre che con morbo di Crohn ma meno dell'1% in pazienti con rettocolite ulcerosa.

Individuazione di entrambi Saccharomyces anticorpi IgG e IgA nelle stesse campione di siero è altamente specifico per CD.

Questo test può essere uno strumento utile per distinguere la colite ulcerosa (UC) da malattia di Crohn (CD) in pazienti con sospetta malattia infiammatoria intestinale.



venerdì 21 ottobre 2016

Il fungo medicinale Hericium erinaceus


In micoterapia è tra i rimedi più efficaci per i disturbi gastrointestinali, ma ha anche proprietà neuroprotettive.

Gli studi scientifici su Hericium erinaceus sono piuttosto recenti, sebbene anche in questo caso, come per altri funghi terapeutici quali reishi, shiitake, maitake, si tratti di un rimedio naturale pienamente integrato nelle medicine tradizionali di Cina e Giappone, che lo impiegano da sempre nel trattamento delle malattie gastrointestinali e per le sue proprietà immunostimolanti.

Oltre ai betaglucani, tipici di tanti altri presidi micoterapici e preziosi per migliorare l'attività delle difese immunitarie, Hericium erinaceus contiene principi attivi, quali erinacine e ericenoni, che agiscono in maniera elettiva e sinergica su due distretti dell'organismo: l'apparato gastrointestinale e il sistema nervoso, peraltro profondamente connessi.

L'azione di Hericium erinaceus sul tratto digerente è ampia: favorisce la riparazione della mucosa gastrica e intestinale, ha effetti antinfiammatori e si comporta da prebiotico, ovvero sostiene la colonizzazione dell'intestino da parte di batteri benefici. Grazie alle sue proprietà, Hericium erinaceus rappresenta così un supporto utile in caso di gastrite, ulcera, reflusso gastroesofageo, patologie infiammatorie intestinali come malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa, ma anche sindrome dell'intestino irritabile e disturbi digestivi su base nervosa.


Hericium erinaceus concorre a ripristinare il benessere digestivo in situazioni di disbiosi (lo squilibrio della flora batterica intestinale), incluse quelle conseguenti a terapie antibiotiche, e a normalizzare l'eccessiva permeabilità della mucosa dell'intestino, in genere associata alla disbiosi e acuita da stress, alcol, farmaci, errori alimentari e altri fattori di perturbazione. Si tratta di una condizione in cui la parete intestinale diventa eccessivamente porosa e non più in grado di svolgere correttamente la sua funzione di barriera all'ingresso nel sangue di tossine, allergeni e microrganismi nocivi. Può dare un ventaglio di conseguenze note come "leaky gut syndrome" (sindrome dell'intestino poroso), che comprende pancia gonfia, dolori addominali, intolleranze alimentari e anche disturbi extraintestinali, tra cui stanchezza, allergie e, secondo diversi autori, persino patologie autoimmuni e numerosi altri problemi.



mercoledì 4 maggio 2016

L’amido resistente e il miglioramento della digestione e delle infiammazioni

La maggior parte dei carboidrati nella dieta sono amidi.
Gli amidi sono lunghe catene di glucosio che si trovano nei cereali, nelle patate e in altri alimenti.
Ma non tutto l’amido che mangiamo viene digerito. Una piccola parte passa attraverso il tratto digestivo e rimane intatta. In altre parole, è resistente alla digestione. Questo tipo di amido si chiama amido resistente e funziona un po’ come una fibra solubile.

Non tutti gli amidi resistenti sono uguali:
      Il Tipo 1 si trova nei cereali, nei semi e nei legumi e resiste alla digestione perché è legato all’interno delle pareti cellulari fibrose.
      Il Tipo 2 si trova in alcuni alimenti ricchi di amido, comprese le patate crude e le banane verdi (acerbe).
      Il Tipo 3 si forma quando alcuni alimenti amidacei, tra cui le patate e il riso, sono cotti e poi raffreddati. Il raffreddamento trasforma alcuni degli amidi digeribili in amidi resistenti tramite un processo chiamato retrogradazione  
      Il tipo 4 è artificiale ed è sintetizzato attraverso processi chimici.

Il motivo principale per cui l’amido resistente migliora la salute sta nel fatto che si comporta come le fibre solubili fermentabili.
Passa attraverso lo stomaco e l’intestino tenue non ancora digerito e raggiunge alla fine il colon, dove alimenta i batteri intestinali.
I batteri intestinali (flora batterica intestinale) sono più numerosi delle cellule del corpo in un rapporto di 1 a 10. Quindi se la gran parte dei cibi che consumiamo nutre solo il 10% delle cellule, le fibre fermentabili e l’amido resistente nutrono il restante 90.
L’amido resistente nutre la flora batterica sana con un effetto positivo sia sulla qualità sia sulla quantità dei batteri.

Quando i batteri digeriscono l’amido resistente, formano diversi composti, tra cui gas e acidi grassi a catena corta, in particolare un acido grasso chiamato butirrato.
Quando mangiamo amido resistente, questo finisce nell’intestino crasso, dove i batteri lo digeriscono e lo trasformano in acidi grassi a catena corta.
Il butirrato è anche il carburante preferito dalle cellule che rivestono il colon.

L’amido resistente ha diversi effetti benefici sul colon: riduce il livello di pH e riduce l’infiammazione.

Per i suoi effetti terapeutici sul colon, l’amido resistente può essere utile per vari disturbi digestivi:
      malattie intestinali infiammatorie come la colite ulcerosa
      morbo di Crohn
      costipazione
      diverticolite
      diarrea

Questi effetti devono però essere ancora studiati adeguatamente in sperimentazioni sull’uomo.

Negli studi sugli animali l’amido resistente ha anche dimostrato di aumentare l’assorbimento di minerali. 


martedì 3 maggio 2016

Modificazioni del microbiota a causa della dieta

Il microbiota gastrointestinale (GI) è l'insieme di microbi che risiedono nel tratto GI e rappresenta la più grande fonte di antigeni non-self, cioè proteine non appartenenti propriamente alla struttura nel corpo umano, anche se un dialogo con il sistema immunitario è possibile, a barriera mucosa integra.
Il tratto GI funziona come un organo immunologico fondamentale, poiché deve mantenere tolleranza verso gli antigeni commensali e dietetici pur rimanendo sensibile a reagire agli stimoli patogeni. Questo significa che deve adattarsi ai suoi ospiti, ma nello stesso tempo essere pronto a reagire, se questi iniziano ad alzare la testa e creare problemi. Se questo equilibrio viene interrotto, si possono determinare processi infiammatori inappropriati, anche di basso grado e quindi non avvertiti, ma che comunque recano danno delle cellule dell’ospite e/o autoimmunità.

I dati della letteratura suggeriscono che la composizione del microbiota intestinale può influenzare la suscettibilità alle malattie croniche del tratto intestinale comprese colite ulcerosa, morbo di Crohn, malattia celiaca e la sindrome dell'intestino irritabile, nonché altre malattie sistemiche come, ad esempio, obesità, diabete di tipo 1 e diabete di tipo 2.

Interessante da considerare come una considerevole variazione nella dieta abbia coinciso con l'incidenza aumentata di molte di queste malattie infiammatorie. Originariamente si credeva che la composizione del microbiota intestinale fosse relativamente stabile a partire dalla prima infanzia; tuttavia, dati recenti suggeriscono che la dieta può causare disbiosi, un'alterazione nella composizione del microbiota, che potrebbe portare a risposte immunitarie aberranti.

Vediamo intanto quali siano alcuni dati disponibili sulla qualità della dieta e le variazioni possibili del microbiota:



Le variazioni della composizione microbica nel tratto GI hanno effetti profondi sulle risposte infiammatorie e metaboliche del nostro organismo. Ad esempio, diete ricche in proteine aumentano l'attività degli enzimi batterici quali β-glucuronidasi, azoriduttasi e nitroriduttasi, che producono metaboliti tossici che attivano le risposte infiammatorie.
 A causa dell'intricato equilibrio che esiste all'interno del microbiota, alterazioni in un gruppo o specie non influirà solo direttamente l'ospite, ma potrà anche disturbare l'intera comunità microbica.
Ad esempio, membri dai phyla Actinobacteria, Verrucomicrobium, Firmicutes e Bacteroidetes possono degradare carboidrati complessi non assorbiti dall'ospite e possono anche inibire la crescita di agenti patogeni opportunistici come  Clostridium spp. e membri delle Enterobatteriacee come E. coli.
La disbiosi può anche alterare l'attività metabolica degli altri membri del microbiota nell'intestino.
Così, è immaginabile che alcune diete promuovano la crescita di microbi che potrebbero avere ripercussioni negative sul loro ospite, mentre altri fattori dietetici potrebbero promuovere microbi benefici.
Non è noto se la disbiosi indotta dalla dieta sia un evento temporaneo o a lungo termine.
 Se la disbiosi è un evento a lungo termine, la nutrizione postnatale potrebbe essere utilizzata per promuovere cambiamenti precoci nel microbiota, proprio nel periodo di sviluppo di un microbiota più stabile.
A sostegno di questa affermazione, il consumo di formule alimentari per la prima infanzia, arricchite di olio di pesce hanno la capacità di alterare la composizione microbica nell'infante; tuttavia, non si sa se questi cambiamenti microbici siano a lungo termine o transitori.
Sebbene questo studio non abbia individuato i cambiamenti microbici specifici che si verificavano, né abbia esaminato gli effetti sull'immunità intestinale, tuttavia suggerisce che il microbiota potrebbe essere modificato attraverso fattori dietetici in grado di arricchire i microbi benefici e prevenire malattie associate a disbiosi.
Questo è vero per quanto riguarda le variazioni di contenuti alimentari, altrettanto vero se si pensa agli effetti dell’alimentazione sull’integrazione con probiotici o simbiotici, che potrebbero risultare potenziati di efficacia o depressi, a seconda della dieta che si segue in concomitanza alla loro assunzione.

Correggere il microbiota è quindi possibile, ma anche questo va fatto su base individuale e con una scelta di modificazioni dell'alimentazione e integrazione di "batteri amici" che deve essere fatta non casualmente, ma sulla base di un approfondimento di Medicina Funzionale, per evidenziare quello che meglio si adatta al singolo soggetto.



venerdì 29 aprile 2016

Reazioni a cibi fermentati e lieviti spesso coinvolte nelle malattie autoimmuni

Artrite reumatoide, malattie infiammatorie intestinali (Crohn e Colite ulcerativa), tiroidite di Hashimoto, artrite psoriasica, diabete giovanile e malattie demielinizzanti (come la sclerosi multipla), ogni giorno che passa sembrano condividere sempre più dei meccanismi infiammatori comuni che coinvolgono anche la reazione alimentare ai lieviti e alle sostanze fermentate.

Negli ultimi anni abbiamo spesso riferito quanto fosse importante la reazione infiammatoria da cibo nel favorire la comparsa di malattie autoimmuni come l'Artrite reumatoide o le malattie infiammatorie intestinali (Crohn e Colite ulcerativa).
Negli ultimi mesi sono stati pubblicati su riviste scientifiche di rilievo numerosi articoli e ricerche che stanno evidenziando la presenza della reazione ai lieviti come elemento favorente, se non addirittura causale, di molte malattie autoimmuni.

La reazione ai lieviti e alle sostanze fermentate sta diventando il più frequente riscontro nei pazienti che visitiamo nei nostri centri, seguito a ruota dalla reazione a glutine/frumento e poi al nichel e ai prodotti correlati.

Serve però ricordare che nelle malattie autoimmuni l'azione patologica è provocata alla fine da citochine infiammatorie come il BAFF, stimolate anche dall'assunzione di alcuni alimenti, come già descritto per il Lupus e per le alterazioni della tiroide.

Nell'ottobre 2013 un gruppo di ricercatori italiani ha pubblicato su Clinical Reviews in Allergy and Immunology un articolo sulla relazione tra lievito di birra e malattie autoimmuni (titolo intrigante: "Dalla cottura del pane all'autoimmunità"), affrontando il tema della malattia autoimmune attraverso una chiave di lettura innovativa e particolare.
Il gruppo di ricerca ha analizzato i dati del National Center for Biotechnology Information (NCBI) cercando le similitudini e le omologie tra gli autoantigeni (le sostanze a cui si indirizzano gli autoanticorpi) e altre sostanze biologiche. In modo sorprendente si è evidenziata una omologia dell'83% tra i mannani del Lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae) e i più comuni autoantigeni.
Significa che quando l'organismo inizia a produrre anticorpi nei confronti dei lieviti (in accordo con le ipotesi di Finkelman e di Ligaarden), cioè in modo del tutto naturale quando i lieviti e le sostanze fermentate sono sistematicamente presenti nella alimentazione abituale, o in virtù di un eccesso alimentare (pizze, pane, formaggi, vino, cracker, brioche, yogurt), produce anche anticorpi che possono reagire con autoantigeni, cioè con parti dell'organismo che vanno a indurre, favorire e forse causare le diverse malattie autoimmuni.

Gli anticorpi contro i lieviti possono essere ritrovati nell'organismo molti anni prima della comparsa di una malattia autoimmune, come è stato verificato nei campioni ematici prelevati e poi conservati in emoteca di militari che anni dopo avevano sviluppato il morbo di Crohn.

Questo significa che una semplice attenzione dietologica può aiutare a prevenire e a curare efficacemente questo tipo di malattia.

Senza voler entrare nella descrizione dettagliata di ciascun lavoro, è utile richiamare:
-       un lavoro ungherese pubblicato sullo European Journal of Neurology che documenta una alta prevalenza di anticorpi anti lievito e anti glutine nei soggetti con sclerosi multipla;
-       due lavori effettuati presso la Facoltà di farmacologia di Monastir (Tunisia) relativi alla presenza di anticorpi anti lievito di birra nelle disfunzioni tiroidee e sulla elevazione significativa degli anticorpi IgG nei confronti dei lieviti in caso di Lupus Eritematoso Sistemico (LES). Entrambi i lavori segnalano perciò una possibile causa o concausa ambientale (la dieta) nello sviluppo di queste malattie;
-       un lavoro pubblicato sugli Annals of Rheumatic Disease da un gruppo di reumatologi della Northwestern University Feinberg School of Medicine, di Chicago, in cui si evidenzia con precisione che i recettori TLR2 presenti nelle articolazioni sono i probabili responsabili del mantenimento della reazione infiammatoria cronica, identificando una sostanza che li attiva proveniente dal tessuto sinoviale. È importante ricordare che i TLR2 sono tra i recettori attivati dagli alimenti nelle reazioni da cibo e fanno parte della immunità innata e questo studio riporta l'attenzione non tanto sulla reazione anticorpale, ma sulla attivazione infiammatoria.

Un tale livello di produzione scientifica continua a indicare una direzione di approfondimento in cui la relazione ambientale (ad esempio dieta, reazione ad alimenti e inquinamento) gioca un ruolo decisivo per lo sviluppo dell'autoimmunità.


(tratto da: eurosalus.it)


martedì 1 marzo 2016

Collegamento tra disbiosi e autismo

Disturbi autistici e dell’umore potrebbero essere collegati ad alterazioni della flora intestinale: lo sostiene un recente studio tutto italiano pubblicato sulla rivista World journal of Gastroenterology,  in cui gli autori fanno notare come la modulazione del microbiota come approccio terapeutico all’autismo e ai disturbi dell’umore sia stato valutato finora solo in condizioni cliniche sperimentali, ma con risultati molto promettenti, invitando quindi al sostenimento di altri, appositi studi.

Secondo lo studio, la flora batterica intestinale rappresenta il primo sistema di protezione del tratto gastrointestinale (GI) e svolgerebbe un ruolo chiave nell’insorgenza di questi disturbi, ma il meccanismo attraverso il quale ciò avviene non è stato ancora pienamente chiarito.

Dati recenti mostrano la forte correlazione tra disbiosi e condizioni come obesità, allergie, malattie autoimmuni, la sindrome dell'intestino irritabile (IBS), malattie infiammatorie intestinali (IBD), e disturbi psichiatrici.

Proprio per queste evidenze sul fondamentale ruolo della flora intestinale nell’alterazione del sistema immunitario, neuronale, e nei percorsi endocrini, il cosiddetto ‘asse cervello-intestino’ sta acquisendo un nuovo significato, anche se le vie di comunicazione non sono ancora definite.

In particolare, la disbiosi è la conseguenza dell’alterazione della permeabilità intestinale che porta rispettivamente alla produzione e alla diffusione nel sangue di una potente endotossina pro-infiammatoria, cioè il lipopolisaccaride (LPS).
Questa piccola molecola ha un influenza importante nella modulazione del sistema nervoso centrale (CNS), aumentando l'attività di aree deputate al controllo dell’emotività come l’amigdala e portando anche alla produzione di citochine infiammatorie che alterano l'attività cerebrale fisiologica, modulando la sintesi di neuropeptidi.

Ci sono studi che sottolineano l'importanza dei collegamenti bidirezionali tra intestino e cervello con particolare focus sulle cellule enterocromaffini. 


A supporto del coinvolgimento dell’intestino nell’autismo, è stato dimostrato che una grande quantità di specie appartenenti al genere Clostridium (10 volte di più) caratterizzano la composizione qualitativa di campioni fecali di bambini autistici. Quindi, in questi soggetti è stata caratterizzata la composizione del microbiota, che mostra uno squilibrio di phyla Bacteroidetes e Firmicutes, con una maggiore presenza di Bacteroidetes e altri commensali intestinali quali Bifidobacterium, Lactobacillus, Sutterella, Prevotella, genere Ruminococcus e famiglia Alcaligenaceae.





Disbiosi intestinale e patologie correlate

Dentro il nostro intestino brulicano quantità davvero importanti di batteri e virus. 
Il canale intestinale accoglie più di 500 tipi diversi di batteri e oltre 1200 ceppi virali. 
I numeri sono importanti perché solo i batteri intestinali sono nell'ordine di 10 alla 14esima cioè 100.000.000.000.000 (centomila miliardi), un numero pari a 10 volte le cellule che compongono il corpo umano.

Tutta questa popolazione si può dividere in due grandi gruppi:

1) batteri autoctoni che cominciano a colonizzare il tubo digerente sin dalla nascita e, già dopo lo svezzamento, si trasformano in colonie stabili permanenti. La qualità e la quantità di alcuni ceppi caratteristici possono fornire un imprintig così costante che può essere usata per l'identificazione individuale con una precisione superiore a quella delle impronte digitali!

2) Batteri alloctoni che si trovano nel nostro intestino solo in forma transitoria senza formare colonie stabili e che sono introdotti con il cibo (es. i formaggi o i salumi e tutti i cibi fermentati): quando il loro numero aumenta causano squilibri che dalla semplice disbiosi possono arrivare fino a malattie più gravi.

Man mano che si procede all'interno dell'apparato gastroenterico, le condizioni ambientali mutano e ciò determina la varietà delle specie microbiche che si insediano ai diversi livelli. La struttura dell'organo è importante e per questo motivo ogni specie animale presenta una microflora batterica di composizione diversa e con un'elevata specificità (un lattobacillo acidofilo del pollo non è esattamente lo stesso di quello dell'uomo).
I batteri colonizzano i segmenti del tubo intestinale dove trovano le condizioni più adatte al loro sviluppo: l'anatomia e la fisiologia sono assai importanti nel determinare la quantità e la qualità dei microrganismi. In linea di massima sono graditi i tratti dove il movimento contrattile dell'intestino (peristalsi) è più contenuto.

Tra i fattori che regolano l'equilibrio della popolazione batterica vi sono il pH, cioè l'acidità o basicità dell'ambiente, l'ossigeno, i nutrienti, la presenza di competitori. I probiotici amano un ambiente acido con un pH intorno a 5 o 6 mentre i patogeni amano un pH più alto verso il 7; l'acidificazione del tratto intestinale operato dai probiotici con la trasformazione di zuccheri in acido lattico, riduce la capacità proliferativa dei patogeni.
Tutti i batteri che vivono nell'apparato gastroenterico si trovano anche nelle feci la cui composizione riproduce l'equilibrio che si è instaurato negli ultimi tratti. 

I due gruppi di batteri, probiotici (buoni) e patogeni (cattivi), sono in equilibrio tra loro, ma il rapporto può sbilanciarsi per effetto dell'età, dell'alimentazione, delle malattie intestinali acute (diarrea), croniche (stitichezza) e delle terapie antibiotiche.
L'uso di integratori biologici a base di batteri probiotici ha un senso solo se gli stessi sono umano compatibili e soprattutto se vengono assunti in modo mirato per il tratto intestinale compromesso.
L'ottimizzazione dei risultati la si può ottenere solo con una conoscenza e un utilizzo degli integratori probiotici mirata al tratto compromesso o alla funzione desiderata.


Non esiste il probiotico che fa tutto, ma esistono probiotici per problematiche diverse.

L'interazione tra batteri probiotici e cellule enterocitarie possono portare a modifiche dell'espressione citochinica che governa il comportamento delle cellule immunitarie. 
Questa interazione può portare, in caso di mal funzionamento, alle malattie infiammatorie e autoimmuni che sono in vistoso aumento. 

La somiglianza tra una famiglia di proteine (chaperoni) mitocondriali indotte dall'infiammazione e quelle batteriche dei patogeni (GroEl) può dare una spiegazione anatomo-patologica all'insorgenza di questo tipo di patologie.  







mercoledì 27 gennaio 2016

L'idrope endolinfatico e la sindrome di Ménière

Per idrope endolinfatico si intende una condizione di aumento della endolinfa, liquido contenuto nell’orecchio interno ed  in particolare all’interno del labirinto membranoso, costituito dal canale cocleare, dal sacculo, dall’utricolo, dai tre canali semicircolari e dal dotto e sacco endolinfatico.

L’idrope endolinfatico è riconosciuto da tutta la comunità medico-scientifica da moltissimi anni come il substrato patologico della sindrome di Ménière, definita come l’associazione, con caratteristiche particolari, di crisi di vertigine rotatoria (illusoria percezione di movimento o dell’ambiente rispetto al corpo o del corpo rispetto all’ambiente), acufeni soggettivi (percezione uditiva non organizzata in assenza di qualunque sorgente sonora), ipoacusia neurosensoriale(riduzione dell’udito per disfunzione dell’orecchio interno), fullness (termine inglese, generalmente tradotto in italiano come ovattamento, sebbene nell’uso clinico si preferisca utilizzare il termine inglese, corrispondente a un senso di pressione e/o chiusura dell’orecchio, non obbligatoriamente accompagnato a riduzione dell’udito).

Definizioni utilizzate per la diagnosi

Idrope  endolinfatico e Malattia o Sindrome di Ménière non possono essere considerati sinonimi o definizioni intercambiabili poiché la prima rappresenta il substrato anatomopatologico della seconda, che si definisce per i suoi sintomi e non per la sua base anatomopatologica. In tutti i casi di Sindrome di Meniere è presente idrope ma non tutti i casi di idrope si manifestano o si manifesteranno in futuro come sindrome o malattia di Ménière.

I sintomi dell’Idrope

L’idrope oltre che manifestarsi con il quadro classico e tutti i sintomi della sindrome o malattia di Ménière, che peraltro possono fare la loro prima comparsa in epoche differenti, permettendo di definire i tal modo il quadro clinico del paziente spesso solo a distanza di molto tempo dall’esordio dei primi sintomi, può dare origine anche solo ad uno o più degli stessi sintomi che compongono, se associati, la sindrome, o con varianti tradizionalmente non incluse nella sindrome stessa. E l’idrope asintomatico, se si accetta, come ormai accettato dalla comunità scientifica da tempo che l’esame più affidabile per la diagnosi dell’idrope sia l’elettrococleografia, è molto più frequente di quanto non appaia dalle statistiche che tengono conto solo di pazienti, visto che l’esame risulta alterato anche in moltissime persone che non riferiscono alcun disturbo.
Avere “idrope” non significa quindi avere un patologia o che questa inevitabilmente si manifesterà con dei disturbi, ma solo avere una condizione parafisiologica (al limite del normale cioè) che potrebbe evolvere o meno in una vera condizione patologica con dei sintomi successivamente, ma la frequenza stessa dell’idrope, la frequente sporadicità dei sintomi che si prestano spesso in modo del tutto occasionale e in modo non invalidante, e l’assenza di vere terapie preventive, rendono impensabile e del tutto illogico lo sfruttamento di questo dato o di esami diagnostici di screening per attuare strategie di prevenzione.
L’idrope creando una disfunzione idromeccanica nell’orecchio interno può dare origine a uno o più dei seguenti sintomi da questa direttamente derivanti, contemporaneamente o in epoche differenti.
L’insieme dei sintomi elencati costituisce la Sindrome di Méniére. Ufficialmente si può usare quest’ultima definizione diagnostica solo se il paziente “ha avuto nella vita almeno 2 attacchi di vertigine rotatoria oggettiva della durata di almeno 20 minuti”, oltre ad acufeni ed ipoacusia. 

VERTIGINI
crisi rotatorie RECIDIVANTI oggettive spontanee
crisi parossistiche posizionali
disequilibrio soggettivo a crisi o cronico

ACUFENI SOGGETTIVI  (bio-elettrici)
fluttuanti, non costanti, variabili persistenti, invariabili, progressivi

ALTERAZIONEDELL’UDITO
ipoacusia fluttuante, variabile, incostante
ipoacusia persistente invariabile o progressiva
disacusia e/o iperacusia

FULLNESS
(Sensazione di pressione o occlusione)

VERTIGINI

Tutte le forme di vertigini recidivanti a crisi, spontanee o posizionali, di qualunque durata e tipo,  e ogni situazione di disequilibrio soggettivo transitorio o persistente sono sempre dovute ad idrope.

Sono quindi da ricondurre all’idrope, secondo questa affermazione,  non solo crisi recidivanti di tipo rotatorio-oggettivo spontanee della durata di almeno 20 minuti l’una come richiesto nella definizione classica della sindrome di Méniere, ma anche la vertigine parossistica posizionale scatenata in modo specifico da cambiamenti di posizione, tradizionalmente attribuite ad una patogenesi mai realmente dimostrata, la cupololitiasi, o disturbi soggettivi dell’equilibrio (disequilibrio soggettivo cronico). Le crisi rotatorie oggettive spontanee, che possono peraltro durare un tempo anche minore di quanto preso in considerazione dalla definizione ufficiale di sindrome di Meniere, sono la diretta espressione di un brusco aumento dell’endolinfa e del conseguente stimolo delle cupole dei canali semicircolari, i recettori che informano il cervello circa le accelerazioni angolari (ovvero di tipo rotatorio) della testa nei tre assi,  al fine di aggiustare automaticamente la posizione degli occhi, e l’equilibrio.

Ma è anche sempre dovuta all’idrope, e in questo caso agli effetti dell’asimmetria esercitata dall’eccesso di endolinfa sulle macule del sacculo e dell’utricolo, i recettori gravitazionali e di accelerazione lineare già menzionati,  la percezione di disequilibrio soggettivo (percezione di instabilità o sbandamento in assenza di vera instabilità o di vera perdita di equilibrio), più o meno invalidante nello specifico paziente anche a seconda del grado di attenzione prestata, e del tentativo di correzione del disturbo, a sua volta strettamente correlati allo stato psichico del paziente ed a componenti intimamente psichiche come ansia e ipocondria.

ACUFENI E IPOACUSIA

L’acufene soggettivo, ovvero la percezione di un segnale acustico di tipo non intermittente (fischio, ronzio, fruscio, sibilo, rombo ecc), indipendentemente dalle sue caratteristiche di durata, è sempre l’espressione di un segnale bio-elettrico generato nell’ambito dell’apparato uditivo ed in particolare nel tratto orecchio interno – nervo acustico
Non esiste alcuna sorgente sonora che produca meccanicamente (secondo le regole fisiche dell’acustica) il suono o rumore percepito dal paziente, ma una sorgente di segnale bio-elettrico che produce un segnale bio-elettrico, il quale viaggiando lungo le fibre del nervo acustico e passando per le stazioni intermedie delle vie acustiche centrali, giunge alla area acustica della corteccia cerebrale, dove viene percepito come segnale acustico.

L’acufene soggettivo, nella maggior parte dei casi, non è altro che la percezione del segnale bio-elettrico generato e propagato fino alla corteccia esattamente come avviene normalmente, ma in questo caso non in risposta ad  una stimolazione reale proveniente dall’esterno.  

Sebbene al momento non sia stato confermato alcun altro meccanismo certo con il quale qualcosa diverso dall’idrope e dalla disfunzione idromeccanica da questo esercitata possa produrre un acufene soggettivo, è possibile che esistano anche meccanismi, quali danni permanenti a livello delle cellule ciliate, o una produzione autonoma, improbabile ma che non può ancora essere esclusa, a causa di danni a livello delle vie uditive centrali. 

Il tipico acufene della Sindrome di Meniere, e quindi da idrope, comunque, stando a quello su cui tutti concordano è un acufene, almeno all’inizio, fluttuante, sebbene non sia assolutamente vero che un acufene esordito come persistente non possa essere dovuto ad un idrope persistente. Ciò nonostante la diagnosi è spesso misconosciuta in assenza di un quadro classico e tipico “da manuale” dei Malattia di Ménière con tutti i sintomi che la costituisco.
Dall’ idrope sono causati, con lo stesso meccanismo, ovviamente anche tutti gli acufeni transitori di breve durata, quali quelli da trauma acustico che si verificano all’uscita da un concerto o da una discoteca. La frequenza di questi acufeni transitori da idrope è tale da aver generato noti detti popolari a conferma di quanto l’idrope sia frequente.

FULLNESS

La sensazione di orecchio chiuso e/o pressione nell’orecchio (fullness) è sempre dovuta a una di queste tre possibili cause: ostruzione del condotto uditivo esterno, ad esempio da tappo di cerume; accumulo di secrezione a densità variabile dell’orecchio medio (otite catarrale o sieromucosa, glue ear), o a un idrope endolinfatico o forse anche più spesso perilinfatico dell’orecchio interno.

Nei primi due casi però è inevitabile l’associazione con una ipoacusia trasmissiva di tipo meccanico,  (e non neurosensoriale), dovuta all’ostruzione del meccanismo di conduzione aerea dell’orecchio esterno, nel caso del tappo di cerume, o all’impedimento alla normale vibrazione della membrana del timpano.

Nel caso di percezione di orecchio chiuso (fullness) dovuta all’idrope (più probabilmente in questo caso alla pressione nel compartimento perilinfatico per aumento di perilinfa o per trasmissione della aumentata pressione endolinfatica), invece l’ipoacusia  può associarsi o anche mancare mentre è, di solito, riferito dal paziente un senso di pressione, di spinta avvertito all’interno dell’orecchio, più raramente riferito se il senso di occlusione è dovuto ad altre cause.
La diagnosi differenziale è comunque in questo caso molto semplice eseguendo un esame audiometrico e soprattutto un esame impedenzometrico (timpanometria, studio della motilità del timpano). Se la timpanometria mostra l’assenza di ostacoli alla normale mobilità della membrana timpanica, l’unica causa possibile di fullness resta l’idrope dell’orecchio interno.

LE CAUSE DELL’IDROPE E LE TERAPIE SPECIFICHE ANTi-IDROPE

Il meccanismo primario che porterebbe all’aumento dei liquidi labirintici non è ancora stato accertato nonostante molte ipotesi siano state formulate. Quelle attualmente più seguite sono il difetto di riassorbimento dovuto ad ostruzione del dotto endolinfatico e/o del sacco endolinfatici, che si ritiene essere la sede primaria di riassorbimento dell’endolinfa e l’eccesso di produzione da parte della cosiddetta stria vascolare. Che l’occlusione sperimentale del dotto endolinfatico possa portare a idrope è un dato certo e confermato, ma in patologia umana sono probabilmente implicati anche altri fattori.

L’ipotesi più suggestiva e finora l’unica supportata da conferme scientifiche e basi logiche  di fisiologia umana è invece quella che mette in relazione l’idrope con l’ormone antidiuretico (ADH, vasopressina, adiuretina). Nonostante la conferma, certa ormai da diversi anni (Beitz E. 1999 e numerose altre pubblicazioni) della presenza nell’orecchio interno di recettori specifici per l’ADH e di aquaporine(canali proteici che modificherebbero la loro permeabilità in risposta all’interazione tra l’ADH ed i suoi recettori), e l’efficacia dimostrata da terapie specifiche che riducono indirettamente la produzione di ormone antidiuretico, l’esatto meccanismo che porterebbe all’idrope o all’insorgenza dei non è però ancora noto ed è probabile che questo risulti da più fattori associati quali ad esempio una ipersensensibilità all’azione dell’ADH e/o condizioni anatomiche favorenti, quali un ridotto riassorbimento a livello del sacco endolinfatico.

Ormai accertato invece è il ruolo dello stress, come fattore favorente e di mantenimento o ricorrenza dei sintomi ed è certo che l’ormone antidiuretico è uno dei principali ormoni da stress del nostro organismo.
Una possibile spiegazione è che picchi non costanti di ADH (ormone sensibile soprattutto alla osmolarità plasmatica, ovvero alla carenza di liquidi, e allo stress, non solo psicogeno, ma anche di natura climatica o legata  ad altri fattori) determinerebbero una aumentata produzione a poussées di endolinfa nell’orecchio interno.  

Quando la capacità di smaltimento e riassorbimento dell’eccesso dei liquidi si mantiene nella norma potrebbero comparire sintomi sporadici e occasionali, o  anche nessun sintomo, mentre la presenza di ostacoli al riassorbimento dei liquidi associati ad aumentata produzione potrebbero portare a disturbi più frequenti o duraturi o addirittura a disturbi stazionari.

Senza tenere in considerazione le numerose terapie prive a priori di alcuna possibile efficacia nei confronti dell’idrope e propagandate spesso solo a scopo speculativo per questa come per molte altre situazioni, quali integratori, vitamine, aminoacidi, ricostituenti, rimedi omeopatici, e tutte le cure cosiddette “alternative”agopunturaosteopatia ed altro, aventi tutte in comune l’assenza di un meccanismo d’azione noto e che possa giustificare benefici diversi da un eventuale e comunque molto raro, effetto placebo o risoluzione spontanea non legata alla terapia, oltre ai già citati vasodilatatori e fluidificanti, i farmaci più comuni ancora oggi impiegati in modo specifico per l’idrope sono i diuretici per via orale.
Purtroppo questi, e l’ultima letteratura scientifica sembra anche iniziare a confermarlo, spesso si rivelano più dannosi che utili, e comunque privi di qualunque efficacia, visto che la loro azione specifica sull’orecchio è bassissima se non addirittura nulla.

Molto diffuso è anche l’impiego di un altro tipo di diuretico, il diuretico osmotico, (mannitolo, glicerolo) che nonostante condivida la definizione relativa all’effetto più evidente (l’aumentata diuresi) con i diuretici per via orale, agisce con un meccanismo del tutto differente.
Introdotte per via endovenosa direttamente nel sangue, queste sostanze ad alto peso molecolare attirano verso il sangue acqua dagli spazi interstiziali dei tessuti per osmosi (il liquido si sposta verso le soluzioni a maggior concentrazione) e questo è il meccanismo che poi porta all’effetto terapeutico per ulteriore inibizione dell’ADH e ovviamente alla maggior diuresi esattamente come avviene in modo molto più diretto e fisiologico per l’iperassunzione di acqua per via orale.

Vanno inoltre menzionate le terapie meccaniche che puntano a spingere meccanicamente il liquido in eccesso verso il suo presunto punto di riassorbimento.

Sullo stesso principio si basa la documentata ma non costante efficacia dei trattamenti in camera iperbarica, dove il paziente vien esposto ad una pressione ambientale superiore a quella atmosferica abituale.

Infine è necessario citare una procedura chirurgica che nella sua logica si presenta come la più ovvia delle soluzioni: l’apertura e l’inserimento mediante intervento chirugico di una valvola nel sacco endolinfatico, ovvero là dove si presume debba avvenire il riassorbimento dei liquidi. In tal modo l’aumento della pressione dell’endolinfa verrebbe immediatamente (in teoria) smaltito attraverso la valvola. La procedura prende il nome di drenaggio del sacco endolinfatico. La procedura chirurgica purtroppo non è immune da possibili complicanze anche gravi, non solo a carico dell’udito ma anche maggiori, seppur rare.  


Tratto da: (Dr. Andrea La Torre – Specialista in Otorinolaringoiatria – www.drlatorre.info)