lunedì 30 gennaio 2017

Otoliti e VPPB

Cosa sono gli otoliti

Gli otoliti, sono dei cristalli di carbonato di calcio, contenuti all’interno di strutture presenti nella porzione interna dell’orecchio chiamati sacculo ed utricolo (organi otolitici). 

A che cosa servono gli organi otolitici?

Sacculo ed utricolo sono organi capaci di captare le accelerazioni lineari a cui è sottoposto il capo, differentemente dai canali semicircolari che invece captano le accelerazioni angolari. Le accelerazioni lineari comprendono quei movimenti che si generano durante la flessione o la traslazione del capo e quella di gravità, esercitata costantemente.

Allo stesso modo, quando la testa è sottoposta ad un movimento di accelerazione lineare, come può accadere durante la deambulazione o in auto, la membrana otolitica rimane indietro rispetto alla macula, inducendo una transitoria deflessione delle ciglia.
Ogni macula è divisa in due parti da una linea virtuale, la striola, attorno alla quale sono orientati gli assi di polarizzazione dei ciuffi di ciglia: nell’utricolo i ciuffi sono orientati con il chinociglio rivolto verso la striola, mentre nel sacculo hanno orientamento opposto. A causa del decorso arcuato della striola, l’orientamento dei ciuffi varia sistematicamente in modo da rilevare stimoli provenienti da tutte le direzioni.

Dove sono localizzati

Gli otoliti sono presenti, come detto sopra, all’interno di utricolo e sacculo, e precisamente adesi alla membrana otolitica, una membrana fibrosa, a sua volta adagiata su una superficie gelatinosa, all’interno della quale sporgono i ciuffi di ciglia delle cellule epiteliali. La struttura recettoriale in questione prende il nome di macula. Gli otoliti aumentono la densità della membrana otolitica  rendendola più pesante rispetto alle strutture ed ai liquidi circostanti, in modo che quando la testa è flessa, a causa della forza di gravità, avviene uno spostamento relativo della membrana otolitica rispetto alla macula  e quindi una  deflessione dei ciuffi di ciglia.


Distacco degli otoliti

Gli otoliti, adesi alla membrana otolitica all’interno dell’utricolo, possono per varie cause spostarsi dalla loro sede, e quindi possono entrare all’interno di uno dei 3 canali semicircolari dell’orecchio. Ricordiamo che ogni canale semicircolare comunica con l’utricolo attraverso un ostio di comunicazione.
All’interno dei canali semicircolari è presente un liquido, chiamato endolinfa, per tale motivo, quando un otolita entra all’interno del canale, determina lo spostamento del liquido a seconda del movimento che compie (forza di gravità), generando a tal proposito, una stimolazione recettoriale che si traduce con vertigini rotatorie.

Quali sono i sintomi del distacco degli otoliti

Fin quando gli otoliti non entrano all’interno di uno o più canali semicircolari non determinano alcuna sintomatologia (tranne nei casi di distacco massivo). Nel momento in cui gli otoliti superano gli osti di comunicazione, allora si presentano le vertigini legate ai cambiamenti di posizione (vertigine parossistica posizionale). Le vertigini sono tipicamente rotatorie, associate a sintomi neurovegetativi (nausea, vomito etc.) ed hanno una durata di meno di un minuto. Sono scatenate dai cambiamenti di posizione, come quando ci si sdraia a letto o quando ci si rialza, ma anche quando ci si abbassa come per raccogliere un oggetto da terra.

Quali sono le cause

Le cause del distacco degli otoliti  possono essere tante ed  il più delle volte rimangono sconosciute in quanto non è sempre semplice identificarle. Tra le più frequenti, il trauma cranico come può succedere per un incidente stradale una caduta accidentale, come anche una carenza della vitamina D che come è risaputo partecipa nei processi di assorbimento intestinale del calcio.  Altre cause possono essere disturbi del microcircolo, dismetabolismi, malattie autoimmuni.

Come si effettua la diagnosi

Per diagnosticare tale patologia l’anamnesi ci aiuta moltissimo in quanto il paziente riferisce una vertigine che insorge durante i cambiamenti di posizione. Il sospetto clinico viene poi confermato grazie all’esame vestibolare che viene effettuato in video-oculoscopia (sistema di maschera con telecamera a raggi I.R.). Il quadro tipico nel caso dell’interessamento dei canali semicircolari posteriori (forma più frequente) è rappresentato da un nistagmo parossistico posizionale, dissociato, con componente verticale-rotatoria  che batte verso l’alto (forma tipica) o verso il basso (forma atipica). La componente rotatoria ci indica il lato che nel caso della forma tipica è antiorario per il canale destro, orario per il sinistro.

La manovra tipica per evocare una vertigine posizionale da interessamento dei canali verticali e quindi il nistagmo relativo è quella di Hallpike.

Nei casi in cui vi è interessamento dei canali semicircolari laterali, il nistagmo sarà prevalentemente orizzontale, parossistico, geotropo, ossia che batte verso terra, nelle litiasi che interessano l’emibraccio ampollare, apogeotropo (batte contro terra), se interessano l’emibraccio non ampollare.

Manovra liberatoria
Per risolvere questa vertigine l’unico modo è quello di far uscire gli otoliti dal canale interessato e riposizionarli nell’utricolo. A tal proposito ci vengono in aiuto le manovre liberatorie, ossia quei movimenti che vengono compiuti al paziente per consentire e facilitare il passaggio degli otoliti attraverso l’ostio di comunicazione tra canale semicircolare ed utricolo.
Esistono differenti manovre a seconda del canale interessato.
Le più comuni sono la manovra di Epley, la Brandt-Daroff, la Gufoni, la barbecue.





Emicrania vestibolare

Cos’è l’emicrania vestibolare?

Il termine “emicrania vestibolare” è stato coniato da Dietrerich e Brandt nel 1999 e stava a significare una condizione caratterizzata da associazione di sintomi vestibolari (vertigini) in pazienti cefalalgici dove ogni altra diagnosi era esclusa e dove i pazienti rispondevano bene alle terapie utilizzate nella classica emicrania. Nella stessa definizione, veniva anche considerata la possibilità in cui non erano presenti gli attacchi di cefalea.

Fisiopatologia dell’emicrania vestibolare

Attualmente i meccanismi fisiopatologici che sono alla base della vertigine emicranica non sono ancora del tutto chiari. Esistono vari modelli presi in considerazione per spiegare tali meccanismi e 3 dei quali sono maggiormente accreditati:
1) Mediazione di neurotrasmettitori quali serotonina e noradrenalina come trigger per la crisi vertiginosa ed algica (mal di testa)
2) Azione di tipo trigeminale con successiva vasodilatazione nel sistema nervoso centrale
3) Disregolazione talamo-corticale con successiva eccitabilità delle vie vestibolare

Quali sono i sintomi dell’emicrania vestibolare?

Il quadro sintomatologico nella emicranica vestibolare può essere differente di paziente in paziente. I sintomi vestibolari (vertigini, disequilibrio, instabilità posturale) possono accompagnarsi alla cefalea o possono essere indipendenti. Quando non si accompagnano alla cefalea diventa sicuramente più difficile la diagnosi e quindi va posta attenzione maggiormente alla storia clinica del paziente (episodi pregressi di cefalea, equivalenti emicranici nell’infanzia etc.) nonché i fattori scatenanti gli episodi vertiginoso-posturali.

Quindi i criteri indispensabili sono i seguenti:
Soggetti con emicrania vera classificate secondo il sistema internazionale delle cefalee (I.H.S.)
Presenza di episodi ricorrenti di crisi vertiginose e/o turbe posturali
Assenza di altra patologia  che giustifichi i sintomi vertiginoso-posturali
Esclusione di patologie neurologiche (RMN encefalo negativa)
Assenza di fattori di rischio vascolare clinicamente importanti

Fattori scatenati gli attacchi di vertigini o cefalea

I fattori che possono influenzare l’andamento delle crisi vestibolari e/o cefalalgiche sono tanti tra i quali:

Fattori scatenanti l’emicrania
Fattori temporali: 
periodo perimestruale
andamento stagionale
cambiamenti atmosferici
ora del giorno
Fattori comportamentali
stress, affaticamento
disordini del sonno
alimenti particolari
cambiamenti di abitudini

Esami diagnostici

Nel sospetto di emicrania vestibolare è di fondamentale importanza escludere altre cause di vertigini ricorrenti e quindi risulta necessario fare, oltre ad una anamnesi completa, almeno i seguenti esami diagnostici: esame vestibolare, esame audiometrico, RMN encefalo. 

Emicrania vestibolare associata ad altre patologie

Grazie a studi epidemiologici si è notato che vi è una stretta correlazione tra emicrania vestibolare e malattia di meniere. Infatti  la prevalenza di emicrania oscilla tra il 40% e il 55% nei menierici rispetto a circa il 20% dei non menierici. Nonostante questi dati, non è ancora del tutto chiarito il meccanismo fisiopatologico che metterebbe in relazione le due patologie.
Altra condizione spesso associata all’emicrania vestibolare è la vertigine parossistica posizionale benigna (VPPB) (otoliti). Infatti, nei pazienti affetti da VPPB l’incidenza di emicrania è circa il 50% e la possibilità di una ricorrenza degli episodi di VPPB è circa il 70%.

Nessuna associazione invece è stata trovata con la neurite vestibolare (nel linguaggio comune labirintite).

Quali sono le cure?


I farmaci che possiamo utilizzare nelle vertigini emicraniche sono vari ed alcuni dei quali utili in fase acuta come i triptani, i FANS, i psicoattivi mentre altri nelle fasi intercritiche (ossia quando non sono presenti i sintomi) i farmaci così detti preventivi come i calcio antagonisti (funarizina), beta-bloccanti, antidrepessivi triciclici, antiepilettici etc. 









lunedì 14 novembre 2016

Gli anticorpi

ANCA

Gli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (spesso chiamati ANCA, dall'inglese anti-neutrophil cytoplasmic antibodies), costituiscono un gruppo di autoanticorpi, prevalentemente del tipo IgG, diretti contro antigeni situati nel citoplasma dei granulociti neutrofili (il tipo più numeroso di globuli bianchi) e dei monociti. Si possono rilevare nel siero, mediante un semplice esame del sangue, in molte malattie autoimmuni, ma in particolare sono associati con alcune forme di vasculiti, le cosiddette vasculiti ANCA-associate.
Gli ANCA si possono suddividere in due classi, chiamate rispettivamente c-ANCA e p-ANCA, in base alla disposizione che assumono legandosi a neutrofili fissati con etanolo e al loro principale antigene bersaglio. Il titolo anticorpale degli ANCA si misura solitamente con metodica ELISA o con l'immunofluorescenza indiretta.
p-ANCA si legano alla cellula bersaglio intorno al nucleo (pattern perinucleare). L'antigene contro cui sono diretti è comunemente lamieloperossidasi (MPO).
c-ANCA si dispongono sulla cellula secondo un disegno di tipo granulare, diffuso nel citoplasma. L'antigene bersaglio più comune è la proteinasi 3 (PR3).
Gli ANCA diretti contro antigeni diversi da MPO e PR3 possono, talvolta, assumere un aspetto "a chiazze" all'immunofluorescenza, e sono più comuni nei pazienti con malattie diverse dalle vasculiti, tre quelle associate con la produzione di ANCA.
Un'ulteriore variante, detta x-ANCA, si può ritrovare nel corso di molte patologie, ma in particolare è frequente nelle malattie infiammatorie croniche intestinali.
Il processo che porta alla produzione degli ANCA non è completamente conosciuto, sebbene siano state proposte diverse ipotesi. È probabile che esista una predisposizione genetica, verosimilmente legata a geni coinvolti nella regolazione immunitaria, ma con il contributo di fattori ambientali, come vaccinazioni o esposizione ad alcune sostanze (silicati). Tuttavia nessuno dei meccanismi patogenetici proposti finora spiega il motivo delle diverse specificità di questi anticorpi.
Tre malattie sono particolarmente associate alla presenza degli ANCA nel circolo ematico: la granulomatosi di Wegener, la poliangioite microscopica e la sindrome di Churg-Strauss. Colpendo prevalentemente i piccoli vasi (compresi i capillari glomerulari), tali condizioni patologiche interessano frequentemente il rene.
Solitamente i c-ANCA si ritrovano nella granulomatosi di Wegener (sono presenti nel 90% dei casi attivi), mentre i p-ANCA sono associati con la poliangioite microscopica, con la glomerulonefrite rapidamente progressiva di tipo necrotizzante e con la sindrome di Churg-Strauss.
In molte altre malattie autoimmuni, come la rettocolite ulcerosa e la spondilite anchilosante, è possibile trovare ANCA in circolo.
In questi casi, comunque, non vi sono segni di vasculite, tanto che la presenza degli anticorpi è considerata incidentale, un epifenomeno più che una causa della malattia.
Nel caso della granulomatosi di Wegener è stata dimostrata una correlazione positiva fra il titolo degli ANCA e l'attività di malattia. Inoltre, alcuni studi in vitro hanno evidenziato come gli ANCA provocano l'attivazione dei neutrofili a cui si legano e reagiscono con le cellule endoteliali che esprimono l'antigene PR3. Gli ANCA potrebbero indurre il rilascio di enzimi litici da parte dei globuli bianchi, provocando un'infiammazione delle pareti del vaso (vasculite).


Vasculiti
ANCA e/o test per MPO e PR3 vengono di norma richiesti quando il paziente presenta segni e sintomi di vasculite autoimmune sistemica. Inizialmente i sintomi sono vaghi e non specifici, come febbre, affaticamento, perdita di peso, dolori muscolari e vari e sudorazione notturna. Al progredire della patologia i sintomi divengono più chiari e gravi, coinvolgendo vari organi e tessuti. Alcuni esempi sono:
-        Occhi- rossore (congiuntivite); problemi di vista
-        Orecchie- perdita dell’udito
-        Naso- raffreddamenti che non scompaiono
-        Pelle- rash cutaneo e/o granulomi
-        Polmoni- tosse e difficoltà respiratorie
-        Rene- proteinuria
Nei soggetti già diagnosticati il test deve essere effettuato a intervalli regolari come monitoraggio.

ANCA (anticorpi anticitoplasma dei neutrofili)
Normalmente sono utilizzati per le vasculiti (che sono molti rare). Abbiamo due pattern diversi di ANCA all’immunofluorescenza indiretta:
C-ANCA (citoplasmatici)
Il citoplasma è completamente verde, è visibile la classica forma dei nuclei dei neutrofili.
P-ANCA (perinucleari)
In questo caso invece la fluorescenza è tutta intorno al nucleo. Nel caso si abbia un immunofluorescenza positiva per ANCA, si passa ad una metodica di immunoenzimatica per capire con precisione contro cosa sono gli anticorpi trovati.
C-ANCA: di solito con questo pattern siamo di fronte alla presenza di anti “Proteinasi 3”, questo quadro è associato al morbo di Wegener, è una patologia estremamente grave con una granulomatosi diffusa che può portare il paziente alla morte (possono esserci quadri apparentemente banali con interessamento di distretti non vitali come orecchi o naso, ma possono complicarsi in maniera drammatica). L’anti-proteinasi 3 è anche associato anche a micropoliangioite.
P-ANCA: il pattern p-ANCA ha invece più possibilità:
anti-Mieloperossidasi, che è comunque la più importante, questo anticorpo è associato al morbo di Churg-Strauss o alla micropoliangioite
anti-lattoferrina, associato a LES, artrite reumatoide e Morbo di Crohn
anti-catepsina G, associato alla rettocolite ulcerosa
anti-antigene sconosciuto, associato a epatite cronica


ANA (auto-anticorpi anti-nucleo)

Si è calcolato che il 5 % circa della popolazione giovane (sopra i 65 anni si arriva al 10 %) avrà gli auto-AB antinucleo (ANA) misurati con l’ANA-test, senza essere necessariamente malati o comunque senza avere necessariamente patologie autoimmuni, ad esempio:
Individui sani
Epatopatie
Epatiti croniche attive (HCV positive hanno ANA nel 30 % dei casi o più)
Cirrosi biliare primitiva
Epatiti alcoliche
Patologie polmonari
Fibrosi
Asbestosi
Infezioni croniche (ad esempio TBC)
Neoplasie
Linfomi
Leucemie
Melanomi
Tumori solidi
Varie
Endocrinopatie
Sclerosi multipla
Post-trapianto d’organo
Prendiamo ad esempio il lupus eritematoso sistemico, è la malattia autoimmune per eccellenza ed in cui nel 95 % dei casi troviamo un ANA-test positivo (praticamente sempre), la sua incidenza è 1 caso su 2000 soggetti. Però su 2000 persone circa, 100 avranno un ANA-test positivo indipendentemente dal fatto che abbiamo una patologia autoimmune o meno, quindi di questo centinaio di persone solamente 1 avrà il LES.

ANTICORPI ANTI-DNA

Un altro tipo di auto-anticorpo importante nelle patologie autoimmuni sistemiche è quello degli anticorpi-anti DNA a doppia elica (nativo, quello a singola elica è denaturato), è un anticorpo che è già patogenetico, al contrario di ANA che è solo un epifenomeno, è per questo che gli anti-DNA vano controllati nel tempo durante il follow-up.
Si può individuare con varie metodiche, immunoenzimatiche, radioimmunologiche, ecc… . Il test che noi utilizziamo (che è anche il più economico) è l’immunofluorescenza indiretta su vetrini con “crithidia luciliae”, che è un parassita emoflagellato che presenta un ampia rete di dsDNA (DNA nativo) chiamata chinetoplasto. La metodica immunoenzimatica spesso faceva si che il DNA denaturasse e quindi l’anticorpo che si individuava era contro DNA denaturato, in questo caso invece il DNA del chinetoplasto è nativo e l’anticorpo trovato non può che essere anti-DNA nativo. Gli anti-DNA sono molto specifici, quando un paziente è anti-DNA positivo nel 90 % è un caso di LES.


ENA

Gli ENA antigeni nucleari specifici, quando li troviamo di solito il paziente ha una patologia autoimmune. Si individuano con tecniche immunoenzimatiche. Noi ne studiamo 7/8, solo quelli che riusciamo ad associare ad un problema clinico:
SM: sospetto LES, è poco sensibile (c’è solo nel 10/30 % di LES) ma se c’è, è per forza LES, inoltre il nome deriva da Smith, che è stato il primo paziente in cui è stato trovato questo anticorpo.
RNP: connettivite mista (molto rara) o subset di LES, sono anti-ribonucleoproteina.
SSA: subset di LES o sindrome di Sjogren (secchezza agli occhi ed in bocca e in alcuni pazienti linfomi e patologie importanti).
SSB: subset di LES o sindrome di Sjogren.
SCL-70: sclerosi sistemica progressiva. Abbiamo visto prima che un pattern di fluorescenza anticentromero è legato ad una sclerodermia limitata, in questo caso invece si avrà una sclerosi sistemica progressiva con un quadro polmonare.
JO-1: polidermatomiosite, malattia rara ma gravissima con un quadro muscolo-cutaneo e problemi respiratori. Anche qui il nome deriva dalla sigla della provetta in cui è stato identificato la prima volta.
Istoni: LES da farmaci, LES e in pazienti sani.
Nucleosomi: LES.


ANTICORPI ANTI-FOSFOLIPIDI

Individuati nel 1983 da Harris, la loro scoperta è stata importantissima per i pazienti con LES o connettiviti, infatti la loro presenza è responsabile di trombofilia assoluta con alto rischio di trombosi in distretti importantissimi come quello cerebrale, cardiaco od intestinale. Questa trombofilia molte volte compare già in età giovanile (pazienti che iniziano ad avere ictus già a 16-20 anni).
Un tempo si trattavano questi pazienti con grandi quantità di cortisone (senza successo) oggi sappiamo che dietro questa trombofilia assoluta ci sono anticorpi anti-fosfolipidi, soprattutto fosfolipidi a carica negativa (fosfatidilserina, fosfatidiletanolamina, ecc…). Tre gruppi di ricercatori indipendenti hanno poi scoperto che molte volte l’anticorpo anti-cardiolipina (un fosfolipide) non si lega direttamente ai fosfolipidi ma tramite una proteina plasmatica, la beta2 glicoproteina 1, quindi in realtà l’anticorpo è contro la proteina e non contro il fosfolipide, il risultato è sempre una trombofilia.

LAC (LUPUS ANTICOAGULANT)

Questo nome dato ad un gruppo di anticorpi è fuorviante, infatti in vitro abbiamo una situazione anticoagulante ma in vivo c’è comunque un effetto protrombotico. In vitro infatti avremo tempi di coagulazione molto allungati. Molte volte abbiamo dei soggetti giovani che fanno test di coagulazione in preparazione ad interventi o donazioni e trovano tempi di coagulazione allungati. A questo punto si indaga e si ricercano autoanticorpi. La presenza di LAC determina in vitro una ritardo nella conversione di protrombina in trombina, prolungando tutti i test fosfolipido dipendenti in particolare il PTTa.

QUANTI SONO GLI AUTO-AB?
Sono tantissimi, in un LES ne sono stati scoperti 116 (al momento) il lupus è il prototipo della presenza di auto-AB, contro molti target diversissimi tra loro (anti piastrine, anti rossi, anti leucociti, anti Ig,…). Quindi per clinica ne studiamo un numero limitato, ma per ricerca ne individuiamo molti di più. Trovarli è utile come abbiamo già detto per individuare le patologie autoimmuni e alcuni ci indicano con precisione a che livello è il danno, contro quale organo.

TIMING DEGLI AUTO-AB
Un tempo quando si individuava un auto-AB ci si fermava li, oggi si sa che invece c’è un preciso timing. Ad esempio nel LES prima compaiono quelli anti-fosfolipidi e anti-SSA/SSB detti anche rispettivamente anti-ro/la (3-4 anni prima della patologia), poi gli anti-DNA (2-4 anni prima), infine compaiono gli anti SM e gli anti RNP (1-2 anni prima) ed a questo punto si avrà il LES.

ANTI ASCA

Gli anticorpi anti Saccharomyces cerevisiae (ASCA) di classe IgA / IgG sono anticorpi diretti contro il Saccharomyces cerevisiae, agente lievitante comunemente utilizzato in molti alimenti e presente nel lievito di birra.
Sono considerati un marker per il morbo di Crohn (malattia infiammatoria intestinale che colpisce preferibilmente l'ileo terminale) e sono presenti nel 60-70% dei pazienti con malattia di Crohn (CD) e 10-15% dei pazienti con colite ulcerosa (UC).

Gli anticorpi IgA Saccharomyces cerevisiae sono presenti in circa il 35% dei pazienti anche con celiachia, oltre che con morbo di Crohn ma meno dell'1% in pazienti con rettocolite ulcerosa.

Individuazione di entrambi Saccharomyces anticorpi IgG e IgA nelle stesse campione di siero è altamente specifico per CD.

Questo test può essere uno strumento utile per distinguere la colite ulcerosa (UC) da malattia di Crohn (CD) in pazienti con sospetta malattia infiammatoria intestinale.



venerdì 21 ottobre 2016

Il fungo medicinale Hericium erinaceus


In micoterapia è tra i rimedi più efficaci per i disturbi gastrointestinali, ma ha anche proprietà neuroprotettive.

Gli studi scientifici su Hericium erinaceus sono piuttosto recenti, sebbene anche in questo caso, come per altri funghi terapeutici quali reishi, shiitake, maitake, si tratti di un rimedio naturale pienamente integrato nelle medicine tradizionali di Cina e Giappone, che lo impiegano da sempre nel trattamento delle malattie gastrointestinali e per le sue proprietà immunostimolanti.

Oltre ai betaglucani, tipici di tanti altri presidi micoterapici e preziosi per migliorare l'attività delle difese immunitarie, Hericium erinaceus contiene principi attivi, quali erinacine e ericenoni, che agiscono in maniera elettiva e sinergica su due distretti dell'organismo: l'apparato gastrointestinale e il sistema nervoso, peraltro profondamente connessi.

L'azione di Hericium erinaceus sul tratto digerente è ampia: favorisce la riparazione della mucosa gastrica e intestinale, ha effetti antinfiammatori e si comporta da prebiotico, ovvero sostiene la colonizzazione dell'intestino da parte di batteri benefici. Grazie alle sue proprietà, Hericium erinaceus rappresenta così un supporto utile in caso di gastrite, ulcera, reflusso gastroesofageo, patologie infiammatorie intestinali come malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa, ma anche sindrome dell'intestino irritabile e disturbi digestivi su base nervosa.


Hericium erinaceus concorre a ripristinare il benessere digestivo in situazioni di disbiosi (lo squilibrio della flora batterica intestinale), incluse quelle conseguenti a terapie antibiotiche, e a normalizzare l'eccessiva permeabilità della mucosa dell'intestino, in genere associata alla disbiosi e acuita da stress, alcol, farmaci, errori alimentari e altri fattori di perturbazione. Si tratta di una condizione in cui la parete intestinale diventa eccessivamente porosa e non più in grado di svolgere correttamente la sua funzione di barriera all'ingresso nel sangue di tossine, allergeni e microrganismi nocivi. Può dare un ventaglio di conseguenze note come "leaky gut syndrome" (sindrome dell'intestino poroso), che comprende pancia gonfia, dolori addominali, intolleranze alimentari e anche disturbi extraintestinali, tra cui stanchezza, allergie e, secondo diversi autori, persino patologie autoimmuni e numerosi altri problemi.



mercoledì 4 maggio 2016

L’amido resistente e il miglioramento della digestione e delle infiammazioni

La maggior parte dei carboidrati nella dieta sono amidi.
Gli amidi sono lunghe catene di glucosio che si trovano nei cereali, nelle patate e in altri alimenti.
Ma non tutto l’amido che mangiamo viene digerito. Una piccola parte passa attraverso il tratto digestivo e rimane intatta. In altre parole, è resistente alla digestione. Questo tipo di amido si chiama amido resistente e funziona un po’ come una fibra solubile.

Non tutti gli amidi resistenti sono uguali:
      Il Tipo 1 si trova nei cereali, nei semi e nei legumi e resiste alla digestione perché è legato all’interno delle pareti cellulari fibrose.
      Il Tipo 2 si trova in alcuni alimenti ricchi di amido, comprese le patate crude e le banane verdi (acerbe).
      Il Tipo 3 si forma quando alcuni alimenti amidacei, tra cui le patate e il riso, sono cotti e poi raffreddati. Il raffreddamento trasforma alcuni degli amidi digeribili in amidi resistenti tramite un processo chiamato retrogradazione  
      Il tipo 4 è artificiale ed è sintetizzato attraverso processi chimici.

Il motivo principale per cui l’amido resistente migliora la salute sta nel fatto che si comporta come le fibre solubili fermentabili.
Passa attraverso lo stomaco e l’intestino tenue non ancora digerito e raggiunge alla fine il colon, dove alimenta i batteri intestinali.
I batteri intestinali (flora batterica intestinale) sono più numerosi delle cellule del corpo in un rapporto di 1 a 10. Quindi se la gran parte dei cibi che consumiamo nutre solo il 10% delle cellule, le fibre fermentabili e l’amido resistente nutrono il restante 90.
L’amido resistente nutre la flora batterica sana con un effetto positivo sia sulla qualità sia sulla quantità dei batteri.

Quando i batteri digeriscono l’amido resistente, formano diversi composti, tra cui gas e acidi grassi a catena corta, in particolare un acido grasso chiamato butirrato.
Quando mangiamo amido resistente, questo finisce nell’intestino crasso, dove i batteri lo digeriscono e lo trasformano in acidi grassi a catena corta.
Il butirrato è anche il carburante preferito dalle cellule che rivestono il colon.

L’amido resistente ha diversi effetti benefici sul colon: riduce il livello di pH e riduce l’infiammazione.

Per i suoi effetti terapeutici sul colon, l’amido resistente può essere utile per vari disturbi digestivi:
      malattie intestinali infiammatorie come la colite ulcerosa
      morbo di Crohn
      costipazione
      diverticolite
      diarrea

Questi effetti devono però essere ancora studiati adeguatamente in sperimentazioni sull’uomo.

Negli studi sugli animali l’amido resistente ha anche dimostrato di aumentare l’assorbimento di minerali. 


martedì 3 maggio 2016

Modificazioni del microbiota a causa della dieta

Il microbiota gastrointestinale (GI) è l'insieme di microbi che risiedono nel tratto GI e rappresenta la più grande fonte di antigeni non-self, cioè proteine non appartenenti propriamente alla struttura nel corpo umano, anche se un dialogo con il sistema immunitario è possibile, a barriera mucosa integra.
Il tratto GI funziona come un organo immunologico fondamentale, poiché deve mantenere tolleranza verso gli antigeni commensali e dietetici pur rimanendo sensibile a reagire agli stimoli patogeni. Questo significa che deve adattarsi ai suoi ospiti, ma nello stesso tempo essere pronto a reagire, se questi iniziano ad alzare la testa e creare problemi. Se questo equilibrio viene interrotto, si possono determinare processi infiammatori inappropriati, anche di basso grado e quindi non avvertiti, ma che comunque recano danno delle cellule dell’ospite e/o autoimmunità.

I dati della letteratura suggeriscono che la composizione del microbiota intestinale può influenzare la suscettibilità alle malattie croniche del tratto intestinale comprese colite ulcerosa, morbo di Crohn, malattia celiaca e la sindrome dell'intestino irritabile, nonché altre malattie sistemiche come, ad esempio, obesità, diabete di tipo 1 e diabete di tipo 2.

Interessante da considerare come una considerevole variazione nella dieta abbia coinciso con l'incidenza aumentata di molte di queste malattie infiammatorie. Originariamente si credeva che la composizione del microbiota intestinale fosse relativamente stabile a partire dalla prima infanzia; tuttavia, dati recenti suggeriscono che la dieta può causare disbiosi, un'alterazione nella composizione del microbiota, che potrebbe portare a risposte immunitarie aberranti.

Vediamo intanto quali siano alcuni dati disponibili sulla qualità della dieta e le variazioni possibili del microbiota:



Le variazioni della composizione microbica nel tratto GI hanno effetti profondi sulle risposte infiammatorie e metaboliche del nostro organismo. Ad esempio, diete ricche in proteine aumentano l'attività degli enzimi batterici quali β-glucuronidasi, azoriduttasi e nitroriduttasi, che producono metaboliti tossici che attivano le risposte infiammatorie.
 A causa dell'intricato equilibrio che esiste all'interno del microbiota, alterazioni in un gruppo o specie non influirà solo direttamente l'ospite, ma potrà anche disturbare l'intera comunità microbica.
Ad esempio, membri dai phyla Actinobacteria, Verrucomicrobium, Firmicutes e Bacteroidetes possono degradare carboidrati complessi non assorbiti dall'ospite e possono anche inibire la crescita di agenti patogeni opportunistici come  Clostridium spp. e membri delle Enterobatteriacee come E. coli.
La disbiosi può anche alterare l'attività metabolica degli altri membri del microbiota nell'intestino.
Così, è immaginabile che alcune diete promuovano la crescita di microbi che potrebbero avere ripercussioni negative sul loro ospite, mentre altri fattori dietetici potrebbero promuovere microbi benefici.
Non è noto se la disbiosi indotta dalla dieta sia un evento temporaneo o a lungo termine.
 Se la disbiosi è un evento a lungo termine, la nutrizione postnatale potrebbe essere utilizzata per promuovere cambiamenti precoci nel microbiota, proprio nel periodo di sviluppo di un microbiota più stabile.
A sostegno di questa affermazione, il consumo di formule alimentari per la prima infanzia, arricchite di olio di pesce hanno la capacità di alterare la composizione microbica nell'infante; tuttavia, non si sa se questi cambiamenti microbici siano a lungo termine o transitori.
Sebbene questo studio non abbia individuato i cambiamenti microbici specifici che si verificavano, né abbia esaminato gli effetti sull'immunità intestinale, tuttavia suggerisce che il microbiota potrebbe essere modificato attraverso fattori dietetici in grado di arricchire i microbi benefici e prevenire malattie associate a disbiosi.
Questo è vero per quanto riguarda le variazioni di contenuti alimentari, altrettanto vero se si pensa agli effetti dell’alimentazione sull’integrazione con probiotici o simbiotici, che potrebbero risultare potenziati di efficacia o depressi, a seconda della dieta che si segue in concomitanza alla loro assunzione.

Correggere il microbiota è quindi possibile, ma anche questo va fatto su base individuale e con una scelta di modificazioni dell'alimentazione e integrazione di "batteri amici" che deve essere fatta non casualmente, ma sulla base di un approfondimento di Medicina Funzionale, per evidenziare quello che meglio si adatta al singolo soggetto.